Questa estate ha rafforzato il mio essere definito attraverso i miei figli e il mio lavoro. I figli che proiettano intorno a loro l’immagine di solida felicita’ affettiva, i figli cosi’ fisici nel loro manifestarsi e ancora cosi’ fragili nel dire al mondo che ci sono. I figli che sono la tua meraviglia e che ti lasciano vuoto dentro, i figli che prendono perche’ e’ giusto che sia cosi’.
(tra l’altro la ragazza in oggetto scrive da cane, ma resta un mito del mio piccolo immaginario)
Il lavoro, che comunque rimane la definizione del buono e del cattivo intorno a te, il lavoro che a ben guardarlo e’ la migliore notizia dell’anno (felicita’ e successo dei figli esclusi). Il lavoro che anche se nuovo e interessante resta comunque viziato dall’essere il patto con il diavolo della felice sussistenza altrui. Il lavoro che per quanto come a volte succede tu lo possa amare resta sempre, alla radice, un rapporto tra valore prodotto e compenso. Ed e’ sempre cosi’, a meno di non potersi permettere di non avere il compenso. Allora si, diventa perfetto e esternazione del nostro io migliore, realizzazione di progetti personali e un monte di bellissime cose. Altrimenti, ci si naviga attorno e si sta attenti agli scogli.
E il terzo pilastro previdenziale per il benestare del tuo intero essere, l’amore, il sostegno, il guardarsi negli occhi e sorridere, resta incastrato da mesi, da anni nei ferri sempre piu’ arrugginiti di frasi feroci e di silenzi anche peggiori. Forse ci vorrebbe un’antitetanica, alla fine dell’estate.
E’ venuto fuori un piccolo post piuttosto malinconico. Allora come premio per essere arrivati fino a qui, un poco di energia….