Ora che ho un poco piu’ tempo per me, ho provato a chiudere gli occhi e a ri/immaginare il mondo in cui ho lavorato. Ne e’uscita una serie di racconti brevi, brevisssimi, tenuti insieme dalla voce di un narratore. Le storie sono storie che non ho mai vissuto ma che avrei potuto vivere anch’io, cosi’ come i personaggi non esistono davvero ma avrebbero potuto esistere. Insomma e’ la ricreazione di un ambiente vista dal mio punto di osservazione. Parziale, fortunato, mio. Un punto d’osservazione che in tutti questi anni e’ diventato una buca piuttosto profonda, a furia di scalpicciarci sopra, e che forse aveva bisogno di questo per essere abbandonato. Visto il tema, ho deciso di mettere questa serie , come si faceva con i romanzi di appendice, su Substack che e’ la piattaforma perfetta per i pochi di voi che potrebbero trovare l’interesse per leggerla. Eroi delle multinazionali. Non vi inondero’ di messaggi, post o link. Sottoscrivete, e avrete il primo racconto.
Io non credevo che il capitalismo potesse arrivare a tanto.
Tappezzano la città di manifesti. “Puoi rivivere i bei ricordi”, dicono, e ti mettono, al centro geometrico dell’immagine, una tazza del mulino bianco.
Lei, quella color crema chiaro con un filo marrone appena prima dell’orlo e il mulino stilizzato sul fianco e che si chiamava coccio. Il fatto che di fianco alla tazza ci fossero quattro macine avrebbe dovuto insospettirmi subito, ma non anticipiamo i fatti.
Le tazze del mulino bianco erano del 1978. Un’epoca remota e complicata, ma chi non ci tornerebbe. Le tazze del mulino bianco a casa dei miei, e poi nella mia prima casa. Quelle piccole continuità che ti facevano stare bene.
Quel manifesto con me funziona benissimo. Tutto in me abbocca all’operazione nostalgia, i neuroni scattano e istruiscono la pratica, la catalogano come urgente, passa davanti alle analisi mediche, al dentista di mia figlia e all’analisi sulle vendite che devo consegnare domani. Sono sicuro che in qualche modo l’art director dell’agenzia interna di Barilla viene a saperlo, sorride e aggiunge una tacca al suo bastone.
Durante la giornata penso ossessivamente alle tre confezioni di Pan di Stelle che ho in casa, e a come ritagliare i bollini senza fare diventare i biscotti possi. Elaboro una strategia precisa fatta di sacchetti di plastica e di sacchetti di carta l’uno dentro l’altro. Le merendine dei Pan di Stelle non sono un problema, hanno gli incarti singoli. Penso che forse riuscirò ad avere la prima tazza in una settimana.
Si, i Pan di Stelle. Perché per me e per la mia famiglia, la Barilla potrebbe anche sprofondare al centro della terra se non fosse per i Pan di Stelle. Sono la sola colazione ammissibile di almeno un paio di figli, sono il mio spuntino all’ora del tè, sono il ricordo romantico di amori passati. Se dovevo incontrare qualcuno che non conoscevo in un posto affollato, gli anticipavo che mi avrebbe riconosciuto dal sacchetto di Pan di Stelle che avevo in mano. Sono le scorte di cibo per i miei viaggi in Etiopia. La consolazione per i momenti difficili.
Finalmente a casa, vado sul sito e dopo avere venduto la mia anima a tutti i possibili usi ed abusi dei miei dati per finalità di marketing, arrivo finalmente al modulo per richiedere le tazze. Alcuni prodotti valgono un punto, altri due. Scorro subito la lista dei due punti (dopotutto una scatola di Pan di Stelle da un chilo costa un botto). Nulla. Vado alla lista del punto solitario. Nulla. Rileggo. Ci sono gli Zenzerini, le Cioccofrolle, i Pandiyo. Capisco, devono spingere le loro nuove cagate. Ma ci sono anche le Macine, i Galletti, gli Abbracci. Cazzo, ci sono anche i Rigoli.
Si saranno sbagliati, penso, una omissione in buona fede. Cerco il modulo per contattarli sul sito. E’ nascosto come la caverna dei quaranta ladroni, ma lo trovo. Gli scrivo nel modo più gentile possibile, considerando le circostanze; uso solo poche maiuscole e nessuna parolaccia, forse qualche avverbio un po’ forte come “incomprensibile” o assertivo come “immediatamente”. Ma nulla di offensivo.
Nell’attesa penso a perché possa essere successo. Non voglio credere che sia una discriminazione consapevole, magari decisa perché i Pan di Stelle si venderebbero anche se l’intera umanità avesse sviluppato un’allergia mortale al cacao e quindi non gli serve nessuna promozione.
Mi rispondono, solo ventiquattro ore dopo. “Gentile Amico, grazie per averci scritto. I prodotti coinvolti nella Raccolta Punti Biscotti Mulino Bianco- Felicità a Colazione sono tantissimi e scelti anche in base alle preferenze dei nostri consumatori. Per le future iniziative cercheremo di allargare la gamma dei prodotti coinvolti: le vostre segnalazioni per noi sono importanti.”
Bastardi. Mi state cercando di dire che siamo solo in pochi a preferire i Pan di Stelle? E allora perché alla Unes, se c’è una fila di biscotti vuota, è quella dei Pan di Stelle?
No, mi stanno dicendo che se dessero le tazze ai mangiatori di Pan di Stelle non riuscirebbero a produrne abbastanza, e gli costerebbe troppo e gli scenderebbero i margini dello zero virgola zero zero zero uno e forse questo metterebbe in pericolo il superbonus del loro direttore della divisione biscotti.
Hanno barattato il loro superbonus con le mie illusioni spezzate. Mi hanno privato proprio di quel ricongiungimento emotivo all’adolescenza che è alla radice della loro campagna.
Gli sarebbe bastato dare un decimo di punto invece di un punto per ogni confezione di Pan di Stelle e avrebbero risolto i loro problemi lasciandomi le speranze. Ci sarebbe voluta più di una settimana, ma ci sarei riuscito.
Mi piacerebbe boicottare la Barilla, ma già lo faccio per tutto il resto dei loro prodotti, e dei Pan di Stelle non posso fare a meno.
Ma se vedo la macchina di uno del loro marketing gli taglio le gomme.
Eccoci di nuovo.
Come dicono quelli delle strategie, mai sprecare una crisi.
Mai sprecare una crisi senza disinformare e senza scaricare i costi sugli altri.
Mai sprecare una crisi senza mettersi un poco di fard sulle guance rosee.
Mai sprecare una crisi senza fare i santi penitenti.
Questa è un’azienda a caso. Il problema non è l’azienda in questione, lo fanno anche (quasi) tutte le altre.
La parte variabile dello stipendio è…. variabile… e dipende dai risultati. E’ legata al raggiungimento degli obbiettivi dell’anno.
Quest’anno è chiaro a tutti che gli obbiettivi non saranno raggiunti.
Quindi, la parte variabile non sarà pagata, o sarà pagata solo parzialmente.
Ma l’articolo fa sembrare questo effetto deterministico una graziosa rununcia del management, un generoso ed eroico tentativo volontario di farsi carico dei mali del mondo. Di condividere il fardello con quelli che non sono manager. Senza ovviamente intaccare il proprio stipendio fisso.
Perchè poi, in fondo all’articolo, si butta lì con nonchalance che si sta considerando la cassa integrazione. Per gli altri. Che quindi avranno meno stipendio fisso, che era quello sui cui contavano per pagare affittti, mutui, bollette. Fisso, appunto, ma non così fisso in tempi di crisi.
Certo che così facciamo fatica a fare progressi …. e sono 50 anni di crisi sprecate invano.
Siamo tutti a casa. Io Bossani la Bergomi Montan Simone. I ragazzi della reception. Quelli che ci aggiustano i computer. Le segretarie. Il leadership team. Siamo casa a Milano, a Sassari, a Napoli, a Roma, a Torino, a Padova. Non c’è più una persona in nessuno dei nostri uffici. Lavoriamo da casa.
Siamo a casa in dodicimila. Poi a pensarci bene siamo a casa in cinquanta milioni, quasi tutti gli italiani sono chiusi in casa aspettando che passi l’epidemia, ma a me oggi, come in ogni giorno feriale, interessano i miei dodicimila.
La nostra nuova routine comincia alle otto della mattina. Davanti alla microscopica telecamera incastonata proprio a metà del bordo superiore dei nostri computer. Che non ci fa sconti. Ci riprende in grandangolo, ci imbruttisce rispetto alle piccole foto patinate che ci identificavano prima, prima che accendere la telecamera fosse diventato una questione di buona etichetta aziendale, e che ci mostravano più giovani, più sodi, più composti.
Alle otto – ogni mattina – comitato di crisi. I responsabili delle divisioni, e i loro capi del personale.
Bossani lo presiede, e ha la cravatta. I primi giorni l’avevamo quasi tutti, e le poche donne erano nel tailleur d’ordinanza, alle otto della mattina. Ora non si contano le tute, le t-shirt, i capelli sporchi e le barbe incerte. Bossani sembra non farci caso, ma non cede.
All’inizio, appena avevamo iniziato ad essere reclusi in casa, le discussioni erano vaghe e disordinate, sembravamo tutti epidemiologi e discettavamo di sintomi, di curve di crescita e di piani di evacuazione. Ora siamo più concentrati e le discussioni sono tutte sul come andare avanti, e soprattutto su ciò che davvero sembra contare. Chi paga.
Il comitato di crisi segue ormai uno schema fisso. Bossani ci chiede come stiamo e ci raccomanda di prenderci cura di noi e dei nostri team; in quei cinque minuti, sempre uguali, molti finiscono la colazione. Guardando bene le immagini si possono vedere masticazioni accennate e a volte anche intuire, fuori dall’inquadratura, il gesto dell’inzuppare il biscotto nel latte e poi vedere una mano furtiva che porta qualcosa alla bocca.
Poi io e Montan iniziamo con il bollettino di crisi. Quanti clienti ci hanno detto che il progetto è interrotto, con quanto preavviso, in che termini e con quanta brutalità; quante delle nostre persone da ieri si ritrovano senza un progetto su cui lavorare. Il numero è ogni giorno più alto, ormai sono più del trenta per cento.
“Aldo”, mi interrompe Bossani mentre stavo raccontando di un cliente che ci ha dato zero giorni di preavviso e ci ha anche invitato esplicitamente a fargli causa, visto che tanto probabilmente la sua azienda non sarebbe esistita abbastanza a lungo da vederne l’esito, “tu cosa faresti”.
Non è una domanda per le otto del mattino, non è una domanda a cui penso di poter dare una risposta sincera. Non è proprio una domanda per me. Ma devo dire qualcosa.
“O la paghiamo noi, o la pagano le nostre persone, o cerchiamo di fare a metà. Ma non credo che la decisione spetti a noi, cosa dice Hoist?”. Hoist, il temuto capo europeo, che non ha ancora fatto sentire la sua voce in questi giorni di crisi.
“Hoist ci lascia fare quello che vogliamo”, risponde Bossani, “credo che sia nel panico e non riesce a decidere nulla, quindi ci ha detto di fare come crediamo, anche se poi vorrà approvare tutto”.
“Allora paghiamola noi. Abbiamo fatto utili per vent’anni di fila, non abbiamo una lira di debito e così tanti soldi in cassa che possiamo pagare gli stipendi per due anni anche senza avere un cliente”.
E’ Simone che ha parlato, lui che di solito in queste riunioni con i grandi capi sta sempre zitto. Il mio capo del personale, l’unico con cui ogni tanto parlo del mio sentimento bipolare per il nostro lavoro. Le sue parole sono così dirette e così poco rispettose. Troppo dirette. C’è una liturgia specifica, e solo Bossani può dettare la linea con sicurezza, tutti gli altri devono proteggere le loro opinioni dal rischio di non essere quelle giuste usando circonlocuzioni complesse, periodi ipotetici e potenti dubitativi.
Simone, invece dei soliti congiuntivi e condizionali conditi di “se”, “considerato che”, “assumendo”, “nell’ipotesi”, “dipende”, “ma anche”, aveva usato solo l’indicativo.
Solo silenzio, per almeno venti secondi. Come se tutti si stessero interrogando sull’enormità di quello che è stato detto, e sulle conseguenze sul povero Simone. O forse tutti si aspettano la reazione di Bossani, ad alzo zero. Ma Bossani tace, e quindi le voci e i volti ripartono, ora si accavallano alla ricerca di consenso. Volti cattivi, doppi menti, guance mal rasate.
“Dovremmo mettere tutti in cassa integrazione, paga lo stato …”
“No tutti quelli che sono rimasti senza un cliente per cui lavorare devono consumare tutti i loro giorni di ferie a cominciare da …”
“Invece facciamo subito un contratto di solidarietà, si lavora 3 giorni su cinque così ci si alterna sui clienti che sono rimasti…”
“Tutti quelli con i bambini piccoli possono prendere il congedo parentale facciamo lavorare solo gli altri…”
Andiamo avanti per quasi dieci minuti, si formano sciami di consenso effimero dietro all’una e all’altra posizione. C’è una finestra, sul computer, dove i partecipanti alla riunione possono scrivere commenti che tutti gli altri vedono, e dopo ogni intervento si affastellano scritte che dicono “giusto”, “d’accordo”, “più uno”. Nessuno aveva commentato le parole di Simone.
Non ci sono dissensi o critiche, ma è chiaro che il gruppo non ha una direzione se non quella di trovare il modo di far pagare la crisi a qualcun’altro. Che la paghi lo stato o le nostre persone non sembra importare più di tanto, basta che non sia l’azienda; il nostro bonus da capi dipende dai suoi risultati, e quindi non fare pagare l’azienda vuole anche dire che non la si pagherà noi.
Io resto zitto, scambio qualche messaggio privato con Simone che ha capito l’impudenza della sua uscita, cerco di consolarlo ma sono preoccupato per lui, nessuno ha nemmeno preso in considerazione la sua posizione e io a questo punto non ho più il coraggio di sostenerlo.
Sono impotente ma sento anche che la mia fune interiore, quella che si logora incessantemente e ogni giorno trova il modo di accorciare la distanza tra quello che io credo sia giusto e quello che invece faccio per lavoro, si sta per rompere. Mi sento svuotato, e inutile, quando finalmente Bossani parla.
“Stiamo dicendo un sacco di cazzate. L’unico con un po’ di buonsenso è stato Simone. Se la facciamo pagare ai nostri ragazzi, non ce lo perdoneranno mai. Magari saremo gli unici a farlo, ma dobbiamo proteggerli, e pagare noi tutto il costo di questa epidemia. È un’occasione unica per essere diversi, le nostre persone ci adoreranno e non si parlerà che di noi. Usiamo le tasche gonfie della nostra azienda, e se questo vuol dire sgonfiare anche un poco le nostre, ce lo possiamo permettere. Quando finirà la crisi avremo raddoppiato la nostra quota di mercato. Lo vendo io a Hoist, non preoccupatevi.”
Simone mi manda una faccina con la bocca spalancata e un punto di domanda. Sul computer, nella finestra dei commenti, parte una gara ad applaudire. Io resto incredulo, Bossani mi ha spiazzato. Ha fatto la cosa giusta, anche per me. Domani ricominceremo ad essere stronzi, ma oggi anche io aggiungo il mio grazie tra i commenti, e per la prima volta sono sincero.
Il commento piu’ fesso che ho visto (ed e’ stata una bella lotta) e’ stato Beppe Sala che si e’ inpavonato del fatto che a Milano citta’ il PD sia rimasto il primo partito. Merito della buona Amministrazione.
Ha.
Siamo nel mondo della inferenza, dovremmo avere imparato tutti, almeno un pochino, a non inventarci correlazioni dove non ci sono. Allora come mai a Roma i 5stelle sono il primo partito? Merito della buona Amministrazione? Sciocchezze. Guardate dove ha vinto il PD. Milano 1,2,3. A Milano Nord (Sesto!!!!!) ha vinto DellaFrera, uno che io pensavo fosse emigrato per giusta causa da decenni.
Il PD resta il primo partito perche’ Milano e’ la citta’, numericamente e relativamente parlando, piu’ borghese d’Italia. La stessa borghesia che elegge un “navigato” manager a fare il sindaco. Come se fosse la stessa cosa. Passioni, visioni, a cosa servono?
Metto Marta Argerich che e’ lungo ma abbiamo 5 anni di tempo.
Io non sono sorpreso del fatto che LEU abbia fatto schifo, di solito io non vinco mai le elezioni, l’ultima volta e’ stato forse il 1975 (La Nave dei Folli), e io nemmeno votavo. Forse con Giuliano sarebbe stato diverso.
Ma, ma, detto tutto questo. Io mi chiedo se sia piu’ giusto un suicidio di principio o un suicidio tattico.
Il suicidio di principio e’ quello che dice: il programma dei 5 stelle (vedi dopo) e’ magari infattibile, ma e’ piuttosto di sinistra, ovvero va contro la diseguaglianza. Quindi per l’Italia, secondo il
principio
appunto di fare il bene del paese, sono meglio loro che gli altri, e stando dentro un governo con loro possiamo correggere le cose che non vanno. Ma se lo sposiamo, diventiamo il partito junior della coalizione, e i partiti junior di solito fanno una brutta fine comunque vada.
Il suicidio tattico e’ quello che dice fanculo, si arrangino, noi ora ripartiamo dall’opposizione. Non governa nessuno, e tra dodici mesi i 5stelle prendono la maggioranza assoluta al grido di lasciateli governare.
Io in effetti so cosa sarebbe piu’ giusto. Ma pare che il 90% del PD la pensi diversamente, e questo secondo il principale oppositore di Renzi. E, a pensarci bene, non mi stupisce.
Programma dei 5stelle
Sono 20 punti, 5 fuffa pura, una dozzina di buon senso e relativamente di sinistra, nel senso di redistributivi, e 3 per acchiappare voti a destra. Poi per poterli realizzare dovremmo ereditare il Klondike con tutti i suoi giacimenti, ma lo score non e’ male. Se qualcuno che ne fosse capace usasse quelle centinaia di parlamentari per portarne a case tre e quattro, magari ottenendo anche che si aggiungessero uno ius soli o due….
Parlando di #MeToo,
oggi leggevo che la Ford negli Stati Uniti ha raggiunto un settlement di 10 milioni di dollari per una causa collettiva di molestie sessuali.
Nulla di strano, i predatori con il potere non sono solo i produttori. Un capo reparto ha lo stresso potere di un Weinstein quando si tratta di persone che lavorano per lui.
Quello che e’ strano e sinistro e che mi fa pensare che stiamo perdendo un’opportunita’ e’ che la stessa Ford aveva gia’ fatto un settlement per gli stessi motivi nel 1990. 22 milioni. E una solenne promessa di “intervenire alla radice del problema”.
27 anni, la stessa cultura, gli stessi comportamenti. Non abbiamo fatto progressi. Li stiamo facendo oggi? Ci sono leggi nuove che definiscono i reati, ed e’ un bene. Ma la cultura non cambia. Il potere non cambia.
Il potere e’ la chiave di lettura; come lo usiamo, come ci piace usarlo, come ci rende incapaci di vedere le cose con gli occhi e le emozioni degli altri. Non so se davvero le donne lo usino molto diversamente (tendo a pensare di no, che le differenze medie siano marginali) ma anche fosse cosi’, se non ci puo’ essere pace almeno facciamola diventare una battaglia tra pari .
Solo piu’ donne al potere (il potere dell’officina, del reparto, della fabbrica, del consiglio d’amministrazione) potranno cambiare questa situazione. Se non ci credete e pensate di avere fatto grandi progressi, leggete questo numero di Grazia.
E’ del 1960, e chiaramente le soluzioni proposte non hanno funzionato…
‘Dove andremo a dormire questa notte? Alla stazione di Victoria stesi sotto le biglietterie o nascosti dentro una tenda piantata ai bordi di una tangenziale? Dove ci laveremo i capelli che ormai e’ chiaro a tutti che non vedono acqua da tempo, cosa ci succederà domani?’
Una generazione, forse mezza, e queste domande che già per noi erano solo domande da vacanza e da libertà sembrano essere diventate domande che possono riguardare solo altri. Immigrate che non sanno come arrivare alla mattina senza una protezione, disperati da tossicodipendenze che non hanno trovato un aiuto, divorziati malprotetti da giudici che non hanno il tempo di giudicare.
Dove vanno questi ragazzi, cosa so di loro? Dove va Giacomo, con la sua apparenza infallibile, il suo camminare dinoccolato e la sua trasgressione controllata, droghe, sesso, pugni, tutto in quantità moderata. Dove andrà, seguirà il suo tranquillo amore o proverà a stravincere e a fare qualcosa di unico, il primo? O terrà tutto insieme? Dove va Vera, che nasconde passioni e si nasconde con il suo farcela all’ultimo minuto, la sua distrazione controllata, la sua fragilità che si trasforma in forza. La sua indipendenza di fatto, senza strilli e clamori, e la sua solitudine. Quale sarà lo strappo che segnerà il suo destino, quale il ragazzo o la ragazza che la porterà via? Dove andrà Marta, così attenta al dolore e al giudizio degli altri? Dove andrà così magra e sorridente, troverà una causa per cui lottare, una ragione vera per cui valga la pena di fare le cose solo perché sono giuste? Saprà vincere, saprà come ferire gli altri quando le servirà? E Luca, dove andrà? Dove lo porteranno quell’ironia da grande, quella voglia di giocare e ridere e sghignazzare che non sembra mai esaurirsi. Con tutte le domande che ha in testa, quali saranno quelle a cui vorrà davvero dare una risposta?
E dove andranno Alice e Clara, ragazze degli anni 10 a cui è dedicato il nostro futuro migliore, a cavallo tra mondi così diversi che viene da chiedersi come faranno a tenerli insieme e se saranno loro a incominciare a chiudere i bordi, a avvicinare i lembi di questi modi di essere che si allontanano ogni giorno?
Quando ero Giacomo chi mi stava intorno pensava che sapessi tutto mentre io sapevo solo quello che mi mancava e definivo il mio futuro per negazioni: voglio la ragazza che non ho, non voglio quello che i miei genitori hanno e sono. Quando ero Vera ero io a pensare di potere vincere e stravincere, ero quello che lasciava tutto per strada come se il domani fosse stato comunque e scontatamente mio. Quando ero Marta assaporavo la libertà che lei avrà forse a 16 anni e il mio tempo era infinito. Quando ero Luca ero così preoccupato di quello che sarebbe successo da non riuscire a dormire, senza motivo, e solo le notti non finivano mai.
Oggi quando mi sveglio nei giorni migliori penso che questi ragazzi siano la sola cosa sensata di cui mi devo occupare. E bello pensare che ce ne sia almeno una, ma il passo successivo non è facile.
Abbiamo toccato, in questo paese, il fondo delle disuguaglianze. Siamo in media molto più ricchi della generazione scorsa, siamo in media molto più fascisti, e in media ci interessa molto meno come stanno gli altri. Ma e’ la mediana della povertà e del malessere che continua a diminuire, e in quella sillaba sta tutta la differenza del mondo. Sembra sciocco ed è arrogante, ora, pensare di volere cambiare le cose ma come si fa a non pensarci, e se ci si pensa come si fa a non provare ad impegnarsi per fare, e se si comincia davvero a pensare allora come si fa a non capire che per impegnarsi si deve fare in modo diverso. Forse più violento, forse più dolce, ma il marketing e le facce carine possono renderti ricco e famoso ma non cambiano la realta’, danno solo delle illusioni di movimento.
Insomma ci vuole nuovo un sogno politico. Altrimenti ci faremo riportare indietro. I segni e i semi ci sono tutti. Si deve decidere se leggerli o lasciarli germogliare senza strapparli.
La FCC sta uccidendo la net neutrality, la sinistra italiana è suicida (e cieca) e nemmeno io mi sento tanto bene.
Ieri ho sognato uno stato avanzamento lavori, e il cliente immaginario aveva modi e fattezze di uno psicopatico. Se nemmeno il sapere finalmente che “smetto quando voglio” mi aiuta a non interiorizzare cosi’ tanto, cos’altro posso fare? Distribuire volantini anti-sistema in ufficio?
La mattina vado a correre nel centro della città in quella nuova controra che vede il cambio della guardia tra chi dorme sui marciapiedi e chi ci camminerà sopra. Legioni di persone. Per non parlare di Corso Concordia, di Viale Tibaldi, di Via Ortles e di tutti quei punti di Milano dove la carità si manifesta.
Questo nella luminosa e rinnovata Milano faro d’Italia, pesce pilota dell’innovazione (anche sociale) e quasi in grado di vincere una partita Europea. In questa Milano luci e nuova brillantina la povertà estrema è incredibilmente visibile. Fuori da Milano, per quello che vedo, lo e’ anche di più.
Stare ancora passabilmente bene ma vedere con i propri occhi quello che è un destino possibile è ciò che ci fa più paura; ci fa diventare chiusi, nemici, razzisti. Il populismo, l’affidarci a chi ha ricette magiche, è l’ultima difesa.
Non che nessuno se ne accorga. Quello che ieri era una nicchia di pensiero mediatica alla stregua dei nouveaux philosophes degli anni 70, una specie di setta di noveaux economistes con Piketty come Levi Strauss, oggi si e’ ingrossata e fa scuola. Ha ricette (vedi Mazzuccato) ma resta ignorata da PD e sinistra del PD, che si limitano a frasi di rito sulla priorità di diminuire le disuguaglianze. Senza capire che alle ricette facili vanno contrapposte ricette difficili. Che si deve parlare chiaramente a tutte le costituenti e fare capire che non tutti potranno avere di più, ma che dalla redistribuzione uscirà una società migliore, più stabile e non più avviata su un piano inclinato. Che il togliere la fame dalle nostre strade avrà un prezzo ma che quel prezzo sarà sopportabile per tutti.
Così non si vincerà? E’ probabile, ma si devono porre le basi per un nuovo patto sociale. Le ricette facili falliranno, e si dovrà essere pronti con una proposta concreta. Forse oggi è meglio perdere bene che vincere male.
Oh, lo stesso si può dire per le donne. Ogni volta che provo a dire che andrebbe ridotto lo spazio (e il costo) del congedo di maternità per fare posto (e denaro) al congedo di paternità le mie interlocutrici ammutoliscono. Non fa vincere le elezioni e non rende popolari. Ma è la strada per innescare un cambiamento culturale che renderà la parità raggiungibile e non un obbiettivo da multinazionale inseguito con strumenti posticci.
Ma io forse e’ meglio che di donne non parli. A proposito di diseguaglianze ed asimmetrie.